11 luglio 2006

A l'incontré!


La sera di domenica 9, lo confesso, ho solo gioito. Mi dichiaro colpevole, non riesco a spiegarmi cotanto ardore nella manifestazione di gioia per la vittoria dei nostri a Berlino che porta allo strombazzo selvaggio per tutta la notte, o addirittura a mettermi a mollo in qualche fontana. E non ho mai intonato il fatidico po-popo-po-po-pooo-po. Anzi, un po' mi fa pure impressione. Inutile dire che ho visto seguito la manifestazione in tv.
L’apoteosi era già iniziata domenica sera, quando al quinto rigore messo a segno dal ligio Fabio Grosso, fisico mingherlino – si fa per dire – e faccia da bravo ragazzo, le arterie che collegano le periferie romane al cuore della città eterna venivano invase da migliaia di carrozzoni festosi e urlanti. Al grido dell’ormai inflazionato succitato coro assalivano le strade le macchine agghindate a festa, ognuna col suo tricolore d’ordinanza, e trasportavano aitanti ragazzotti che già si figuravano a tuffarsi nelle fontane del Valadier o in quelle del Bernini, o casalinghe annoiate entrate in macchina per far contenta la prole, o lavoratori gioiosi in viso come se essi stessi avessero contribuito, fattivamente, all’epopea calcistica che la Nazionale italiana ha concluso vittoriosa dopo una partenza mediocre, tra lo scetticismo di media e tifosi, complice anche l’apertura del vaso di Pandora ad opera della magistratura sportiva. Ma ciò che è accaduto ieri, la follia collettiva che ha contagiato un milione di persone adoranti verso il bus 110 open, sottoposto all’azzurro restyling e, ironia della sorte, acquistato usato da Veltroni proprio a Parigi, che procedeva a passo d’uomo portando sul dorso della folla i vittoriosi reduci, è qualcosa di inedito nella storia dello sport, anche di quello nazional-popolare. Una prelibatezza per i sociologi.
Tutto ha inizio con l’arrivo dei campioni del mondo all’aeroporto militare di Pratica di Mare, usato fino a ieri solo per arrivi e partenze istituzionali, felici o funeste che fossero. Gli addetti alla sicurezza sono costretti a predisporre una grande area transennata per gestire l’afflusso della moltitudine in canottiera e calzoncini giunta a rendere lode ai nostri eroi. In cielo s’innalzano le patrie tinte delle frecce tricolori, e a terra la fanfara omaggia i paladini con le arie che hanno fatto e fanno grande il Belpaese. Poi tutti su due pullman di linea, i cui autisti affronteranno anch’essi un’epopea: portare gli azzurri dal presidente Romani Prodi, che li attende a Palazzo Chigi.
La carovana che riporta a Roma i ragazzi di Marcello Lippi incontra già dal principio i primi, benevoli ostacoli. La gente è assiepata ovunque ad attendere il passaggio degli autori del riscatto sportivo, che diviene quello di una vita per un terzo passata a lavorare, un altro a dormiree il resto davanti al televisore.
La Nazionale giunge così al cospetto del capo del Governo con oltre due ore di ritardo. Si deve procedere in fretta, al Circo Massimo ci sono già settecentomila persone, ed altre ne stanno arrivando. Prodi nel suo discorso ringrazia la squadra perché «avete dimostrato che i buoni risultati si ottengono con la fatica, il sudore e l’impegno». Si procede velocemente alla distribuzione del ricordino istituzionale. Al rompete le righe scatta la ressa di giornalisti, funzionari, impiegati di Palazzo Chigi con figli al seguito, chi con un pallone o una maglia da farsi autografare, chi con il telefonino in mano, pronto a puntarlo sul primo azzurro gli capiti a tiro.
Si riparte. O meglio sarebbe dire si parte. Perché è adesso che inizia il vero bagno di folla, il vero compenso per queste ventisette persone che hanno regalato la felicità ai calciofili italiani, da troppo tempo all’asciutto di riconoscimenti internazionali. Il pullman percorre via del Corso e arriva a Piazza Venezia, invasa da una ressa festante, sudaticcia e alticcia. Il capitano Fabio Cannavaro si è portato alla punta del mezzo, viene in mente la flotta di Ulisse, il cui mozzo è sulla prua di un veliero, al ritorno a Itaca. Il difensore napoletano aizza ancorpiù la gente, le sorride, la fomenta, e ci sguazza dentro, mentre il 110 solca il mare di bandiere tricolori e cartelli del tipo «Zizu pjatela n'der cù».
Del Piero ha una bottiglia in mano e non la poserà fino all’arrivo a destinazione.
Il bus impiega circa quaranta minuti per compiere il suo tragitto di appena due chilometri, ma siamo in vena di imprese eroiche, ed è giusto che anche il suo autista dia il suo contributo.
Quando finalmente i campioni del mondo riescono a mettere i piedi a terra, guadagnano il palco nel fragore imperiale delle trombe in stile antica Roma. Ormai è il delirio, la legittimazione di questa follia collettiva che ha colpito tutti. Anche Carlo Verdone, chiamato a presentare la serata, urla, stringe, abbraccia, bacia, si dimena, esorta la folla all’esecuzione di cori di alè-oh-oh, vuol costringere il più posato Totti a far dire che sì, ai prossimi Europei ci sarà ancora. Il palco trabocca di gente, da sotto le persone, un milione, fanno fatica a scorgere i propri beniamini. Si riconosce sicuramente Del Piero, che ha finito la bottiglia e ora appollaiato sulla ringhiera urla sorridente a dorso nudo cercando invano di seguire le parole di “We are the campions”.
Dopo l’esecuzione di vari inni all’Italia (quello di Mameli ma anche Azzurro di Celentano, con tanto di trenino), qualche supporter un po’ troppo ardito che tenta di salire anche lui sul palco (dopotutto c’erano saliti cani e porci) e la lettura del messaggio del presidente Napolitano che non ascolta nessuno, i nostri eroi salutano la folla osannante e risalgono sul pullman che li porterà dalle loro famiglie.
C’è chi ha visto passare il 110 azzurro al ritorno, e giura di averli visti accovacciati al piano di sotto a dormire…
Bhè... quasi quasi lo scrivo.... Viva l'Italia!

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